ZKM | Center for Art and Media, May 7th–August 7th, 2011
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04.07.2011
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Stefano Malatesta: Tano Festa

Negli ultimi anni il degrado fisico di Tano Festa aveva assunto aspetti che mettevano in imbarazzo anche gli amici: una sorta di romanesca discesa agli inferi di genere “alìmorté”. A forza di interpretare ruoli diversi, ma tutti disastrati e votati al peggio, non sembrava più il vagabondo o l’ubriacone rissoso  da osteria: lo era diventato realmente. Alcuni momenti, quelli legati alla sua presunta instabilità psichica, che lo portava a entrare e uscire dagli ospedali, potevano essere esilaranti,e ancora carichi  di una certa eversione. Una volta scendendo in Piazza del Popolo, teatro assoluto delle gesta della pop art romana fermò un taxi intimando al conducente di portarlo a Palermo. Arrivato all’Hotel des Palmes tirò fuori una carta d’identità che aveva rubato due giorni prima. “Sono Renato Guttuso” disse ”Vorrei una stanza”. E naturalmente venne ospitato con tutti gli onori, a spese del pittore siciliano, che avvertito dal portiere, aveva  capito chi fosse il suo sosia. Con Giorgio Franchetti, il grande collezionista e Antonella Amendola, Guttuso è stato uno dei protettori e sostenitori di Tano, anche se le sue opere erano esattamente quello che il falso Guttuso voleva distruggere.
Ma per la maggior parte del tempo Tano vagava disperato in quella Roma che aveva così sentitamente interpretato anni prima, riproducendo un clima irripetibile e creando uno stile che ancora si ritrova tra noi. Nessuno ha mai capito veramente perché si fosse lasciato andare dentro questo buco nero da cui sapeva che non sarebbe più uscito. Forse era il destino annunciato di uno nato il 2 novembre, giorno dei morti, o forse il suicidio a 28 anni del geniale fratello Francesco Lo Savio, lo aveva colpito molto più di quanto si fosse immaginato. Ma credo che questa cupio dissolvi fosse il tratto che distingueva una generazione di artisti, che seguiva a quella del dopoguerra: non avendo nessun mito da salvaguardare perché non avevano combattuto contro il fascismo, erano privi di tabù e cercavano di svuotare tutti i cassetti, mescolando in modo inestricabile arte e vita, consapevole di quanto fossero belle e impossibili, come dice la canzone della Nannini. Caratteri freddi, come Mario Schifano, con tutte le sue droghe si difendeva molto meglio di Tano,che sotto l’aspetto di un oste della malora nascondeva il tratto fragile e gentile di un poeta che aveva frequentato Sandro Penna.
Nelle settimane scorse è stata inaugurata allo ZKM, Museum fur Neue Kunst, di Karsruhe una grande, spettacolare mostra intitolata “Tano Festa, Francesco Lo Savio. La mancanza dell’altro”  con centinaia di opere la maggior parte delle quali provengono dalla collezione di Giorgio Franchetti. Dice Gaia Franchetti, moglie di Giorgio, che il direttore della galleria, Peter Weibel, messo davanti alle opere del pittore italiano radunate prima di essere montate, sarebbe stato come folgorato: “Ma questo qui ha anticipato di molti anni tutti i nostri!”. Accompagnata da musiche italiane degli anni Sessanta, come le canzoni di Tenco o di Ornella Vanoni che canta “Senza fine”, l’esposizione sta avendo uno straordinario successo di critica e di pubblico. E finalmente ci si rende conto di quanto l’azione apparentemente casalinga e vernacolare della pop romana abbia preparato la cultura esplosa poi con il ’68. Il curatore Freddy Paul Grunert, ha manovrato in modo da collegarla alla fiera di Basilea, frequentata da moltissimi italiani che possono così raggiungere Karlsruhe in un paio d’ore.

La mostra va anche vista come una forma di compensazione per l’indifferenza con cui le gallerie tedesche, le più ricche d’Europa, trattarono Tano a suo tempo. Anche gli Stati Uniti, dopo un inizio pieno di speranze, aveva sbarrato la strada ai pittori della pop art italiana. Quasi tutti gli artisti dell’epoca erano comunisti, ma nessuno di loro si sognava di andare a Mosca a piazzare le loro opere ai membri del poltikburo. Non ci sarà mai più né prima né dopo un periodo così favorevole al mito americano e il sogno di Tano, come di qualsiasi artista o gallerista, era di andare a New York e partecipare all’immenso successo della pop americana in qualità di cugini europei. Ma i collezionisti yankee per nome dell’elegante, intelligente, onnipotente e spietato gallerista Leo Castelli, non volevano che la più grande corrente dell’America fosse contaminata da europei di ritorno. E Tano, come scrisse a Plinio de Martiis, il direttore de La Tartaruga, fu costretto a “smammare”.

Tornò a Roma, da dove non sarebbe mai dovuto uscire. Per alcuni anni Festa, Angeli e Schifano, sempre citati in terna come il trio Lescano, continuarono a dominare la scena, diventando estremamente popolari e Tano veniva intervistato da critici sofisticati, che apprezzavano molto le sue opere. Ma se gli elogi si sprecavano, di soldi se ne vedevano pochi. Solo Schifano tra i giovani riusciva a vendere, da quando le sue scritte gocciolanti colore erano piaciute all’avvocato Giovanni Agnelli che ne aveva fatto un autore celebre. Per anni Tano riuscì a campare solo con l’aiuto di corniciai, robivecchi, piccoli antiquari, baristi, proprietari di trattorie e di piccoli alberghi equivoci aperti nei vicoli che lui frequentava.

Morì a cinquant’anni. Al suo funerale Franchetti lesse la sua più bella poesia, intitolata “Vascello fantasma”: Un tempo/ come un gagliardo veliero / la prosa fendendo / marosi schiumanti di rabbia marina/ solcai tutti i mari./ Poi,/ nel fare ritorno verso le mie coste/ a poca distanza dalla riva/ la chiglia si arenò…/Ogni giorno i flutti/ delle onde che lambiscono/ lo scafo, ormai immobile,/ lo corrodono lentamente…”. Molti conoscevano i versi a memoria, ma quella fu un’occasione in cui piansero tutti, consapevoli che stavano seppellendo l’eroe romanesco e dolcissimo che aveva interpretato un’epoca e una città meglio di qualsiasi altro.